<b>Gli adattamenti francesi de <i>Il tacchino</i> di Georges Feydeau:</b>

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Gli adattamenti francesi de Il tacchino di Georges Feydeau:

By Annamaria Martinolli | Published  12/4/2012 | Art/Literary Translation | Not yet recommended
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Annamaria Martinolli
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Dalla morte di Georges Feydeau a oggi, Il tacchino è stata la sua pièce più adattata. Anche in Francia, fin dall’inizio, si è sentita l’esigenza di apportare alcune modifiche al testo originale per renderlo maggiormente comprensibile al pubblico moderno. In questo contesto, si è ritenuto opportuno prendere in considerazione l’atteggiamento molto diverso di quattro registi teatrali nei confronti della rappresentazione dell’opera di Feydeau. I quattro registi in questione sono Jean Meyer, Thomas Le Douarec, Anne Delbée e Lukas Hemleb.

Si pensa possa essere interessante valutare le loro scelte poiché, nonostante non venga compiuta alcuna traduzione, il loro lavoro ci permette di capire meglio le esigenze a cui i registi sentono di dover andare incontro per soddisfare lo spettatore.

Jean Meyer, regista teatrale e cinematografico, membro della Comédie-Française e direttore artistico del Centre d’Art Dramatique de la rue Blanche, ha il merito di essere riuscito a dimostrare che Feydeau poteva essere rappresentato anche nel “tempio del teatro classico” e che il repertorio di una delle più importanti compagnie teatrali non comprendeva solo testi intellettualmente impegnati.

Resosi conto che rappresentare il testo integralmente comportava notevoli problemi di durata, Meyer, nel 1951, decise di effettuare dei tagli soprattutto al primo atto, che essendo quello più descrittivo influiva meno sulla struttura complessiva della commedia. Eliminò, così, gran parte del dialogo tra Lucienne e Pontagnac, riguardante le tecniche seduttive maschili viste metaforicamente come un investimento in Borsa, e qualsiasi riferimento alle doti da boxeur di Maggy, che riteneva rendessero il personaggio eccessivamente caricaturale. Questo gli permise di attuare le uniche variazioni necessarie a migliorare la scorrevolezza del testo, senza intaccarne la costruzione. La scelta di Meyer fu motivata anche dai colloqui che aveva avuto anni prima con Armande Cassive e Marcel Simon, due dei maggiori attori diretti da Feydeau, dai quali ricevette preziosi consigli sullo stile dell’autore e su ciò che esigeva dai suoi interpreti.

Riguardo alla ragione che spinse Jean Meyer a optare proprio per Il tacchino tra tutti i testi di Feydeau, basta leggere quanto egli stesso affermò durante un’intervista concessa allo studioso Jacques Lorcey nel 1973:

«Credo sia la sua commedia migliore, la più potente e perfetta. Vi è in essa qualcosa di assolutamente geniale: non succede nulla! Certo, il numero di accadimenti è infinito e, nel secondo atto, questo continuo giustapporsi di personaggi che si imbattono gli uni negli altri, senza avere niente a che vedere tra loro, fa perdere il filo del discorso. Ogni trenta secondi, si verifica un fatto nuovo – e questo agglomerato di azioni non porta a niente! Nessuno ha tradito nessuno, e le persone sono caste e pure alla fine come lo erano all’inizio. Solo le migliori e più potenti commedie sono concepite in questo modo. In altre pièces di Feydeau, come Occupati di Amélie o La palla al piede, i soggetti sono molto «parigini», con concubinati o scene di letto – mentre qui, NULLA!»

Il fatto che una costruzione praticamente perfetta contribuisca alla rappresentazione di un mondo in cui l’apparenza la fa da padrone, e nessuno mette in pratica i propri propositi, diventò l’elemento cardine che indusse Meyer a eleggere Il tacchino quale miglior esempio del teatro di Feydeau.

Nel 1995, la pièce conobbe un nuovo successo sotto la direzione di Thomas Le Douarec, attore, regista, soggettista e insegnante di arte drammatica. Le Douarec si pose come obiettivo fondamentale quello di avvicinare i giovani al teatro, ragion per cui decise di aggiornare il linguaggio utilizzato da Feydeau, ritenuto troppo antiquato, inserendo nel testo dei giochi di parole facilmente riconoscibili dalle nuove generazioni, e sostituendo i riferimenti intertestuali alla Francia dell’Ottocento con riferimenti alla Francia degli anni Novanta. Oltre a ciò, puntò molto sulla scenografia, pensando di sottolineare il movimento frenetico della pièce attraverso l’introduzione di tredici porte. Se i giovani dimostrarono di apprezzare, la critica non fu del tutto convinta, in particolare Joshka Schidlow di Télérama:

«Una scenografia costituita solo da porte, di cui si intuisce facilmente che continueranno a sbattere, ha di che rassicurare uno spettatore ghiotto di vaudeville. Ma non per molto, ahimè! Ben presto, questo tacchino in salsa Le Douarec volge alla farsa, o al non si sa bene cosa. Se qualche trovata è decisamente divertente, altre sono di una volgarità gratuita. Non vi è dubbio che il regista volesse "rispolverare" quest’opera rappresentata per la prima volta nel 1896, ma è riuscito solo ad appesantirla moltiplicando le gag bolse. Un’impresa di massiccia distruzione a cui il povero Feydeau non sopravvive. Peccato per gli attori, che sono perfetti»

Nel 2000 il “testimone” passò all’attrice e regista Anne Delbée, amante del surrealismo, che pensò bene di mettere in scena un Tacchino carico di contraddizioni, dove i campanelli dell’albergo restano muti – in una delle scene fondamentali del secondo atto – e dove i personaggi dicono “esco” per poi, invece, nascondersi sotto il letto. Il tutto, naturalmente, intervallato da numeri coreografici che ricordano L’angelo azzurro con Marlene Dietrich. Anche in questo caso, la critica non digerì:

«Sappiamo che Feydeau consegnava le sue pièces chiavi in mano, con scenografia incorporata. Al punto che chiunque abbia cercato di aggiungerci un tocco personale ha finito per inceppare il magnifico meccanismo dei suoi vaudeville. Ora, Anne Delbée, in questo caso, non si è limitata ad un «tocco», ma ha infarcito lo sfortunato tacchino di diversi ingredienti che rendono la farsa come minimo indigesta. Non si può negare che Anne Delbée possieda un senso dell’estetica, e un’autentica creatività per il ricamo raffinato. Ma l’autore di Sarto per signora e La palla al piede non sa che farsene dei merletti. Il minimo sovraccarico appesantisce la sua intenzione e spezza il ritmo della messinscena. A quanto sembra, dopo la prima, Anne Delbée ha alleggerito lo spettacolo di una buona mezz’ora. Il che ha reso Il tacchino più commestibile, in questo periodo di festa, e permesso agli attori di dare il meglio di sé!» (A.I. Le Parisien, 28/12/2000)

Il comportamento del regista Lukas Hemleb, che mise in scena quest’opera nel 2002, fu completamente diverso. Hemleb, di origine tedesca, ha iniziato la sua carriera negli anni Ottanta curando la regia di opere di Pirandello, Gogol, Calderón e Hebbel, e successivamente ha lavorato con compagnie teatrali camerunesi e nigeriane prima di stabilirsi definitivamente in Francia.

La scelta di questo regista è significativa in quanto si scontra con uno dei principi fin qui presentati come un’esigenza dell’attuale mondo teatrale: la durata. Anziché operare vistosi tagli al copione per rientrare nelle due ore canoniche, Hemleb optò per una rappresentazione quasi integrale del testo, arrivando a una durata di due ore e trequarti, ma lo attualizzò fino all’estremo limite. Gli uomini mantengono la loro vacuità, ma acquistano gli hobby della società contemporanea: fanno jogging, saltano, praticano il kung fu (il regista ha assunto un vero istruttore di kung fu per addestrare gli attori), mentre le donne si divertono a metterli K.O. dall’alto dei loro tacchi a spillo.

I personaggi vengono naturalmente modernizzati: Pinchard più che un ufficiale medico di cavalleria è una specie di dittatore pluridecorato, con tendenze sadomaso, che brandisce la frusta quando vede la cameriera; sua moglie è sempre sorda ma è molto più giovane rispetto all’originale ed è talmente patita di balletto da fare le piroette ogni volta che entra in scena; Clara, la cameriera dell’albergo, ha una doppia personalità che la induce ad assumere atteggiamenti depravatori e la moglie di Pontagnac anziché soffrire di reumatismi è un’alcolizzata astiosa.

Un’altra innovazione riguardò l’impianto scenografico, dotato di pareti mobili che interagiscono con i sentimenti dei personaggi, e i versi di piacere di Armandine e Rédillon quando, all’inizio del terzo atto, sono chiusi in camera da letto.

Le reazioni della critica francese di fronte a questa rappresentazione furono contrastanti; L’Humanitédel 2 dicembre 2002 dimostrò di non apprezzare le innovazioni, ma non stroncò completamente l’opera:

«Quanto ai costumi…, piuttosto attuali, non ne siamo affatto convinti. Il corpo femminile, nascosto e agghindato, della sedicente Belle Époque, non è forse più propizio a risvegliare i fantasmi grotteschi di uno stupro illusorio? Un’altra incongruenza sono le scene di scontro; quando tutto precipita e sembra che i personaggi stiano per venire alle mani, gli uomini assumono delle posture da arti marziali che ci lasciano dubbiosi. […] Riconosciamo che c’è della sostanza in questo, ma è un po’ alterata da un desiderio inarrestabile di modernità fine a se stessa, il che non aggiunge nulla alla farsa del Tacchino» (Cfr. Jacques Lorcey, Du mariage au divorce, Georges Feydeau son œuvre, Atlantica-Séguier, Paris 2004, pp. 121-122)

Happy Few, al contrario, espresse apertamente la propria disapprovazione:

«Feydeau si starà rivoltando nella tomba. […] Suggeriamo a un regista francese di mettere in scena a Berlino I dolori del giovane Werther di Goethe con, nel ruolo principale, un clone di Mad Max» (Jacques Lorcey: pp. 121-122)

Come si può notare da questo breve confronto tra i registi, a volte il desiderio di avvicinare il testo a un pubblico neofita, coinvolgendolo emotivamente in quello che viene rappresentato, induce a stravolgere le caratteristiche dei personaggi per renderli più simili all’attuale contesto sociale.

Già nel 1951 Jean Meyer si rese conto che il comportamento di alcuni personaggi poteva risultare antiquato in rapporto alla sua epoca, ma decise di rispettare il testo per permettere al pubblico francese di capire la grandezza di Feydeau e di accettare che le sue opere venissero rappresentate alla Comédie-Française. Al contrario, Thomas Le Douarec, Anne Delbée e Lukas Hemleb hanno sentito la necessità di dover reinterpretare i ritmi e i meccanismi dell’autore, estrapolando i personaggi dal loro contesto e facendo loro acquisire le manie e i difetti dell’uomo moderno. La scelta può essere discutibile in quanto non si ha modo di vedere rappresentato sul palco l’autentico Feydeau, ma una sua rivisitazione. Tuttavia questo permette una maggiore presa sul pubblico più giovane che non conosce il teatro dell’autore.


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